A Brooklyn, sobborgo newyorkese, gli operai, i gay, gli afroamericani, gli emigrati lo avevano capito bene e avevano iniziato a vivere una vita di evasione che si concentrava al sabato sera. Nacque così La febbre del sabato sera, come uno spaccato di un qualcosa di sommerso, che esisteva per pochi e che in molti desideravano”… è la voce del DJ Claudio Coccoluto che su Studio Universal (Mediaset Premium sul DTT) – a Marzo ogni martedì alle 21.15 – presenta quattro film, veri monumenti al mondo della disco music.  

Il Canale celebra l’Era della Disco, il cui apice è nella seconda metà degli anni ’70 ma passa alla storia grazie ad alcuni cult movies e alle loro colonne sonore, attraverso i ricordi e gli aneddoti del DJ Coccoluto che ha vissuto la nascita e lo sviluppo di un fenomeno che ha caratterizzato un’epoca.

Titoli della rassegna:  

  • 4/3 La febbre del sabato sera (1977)
  • 11/3 Grazie a Dio è venerdì (1978)
  • 18/3 The Last Days of Disco (1998)
  • 25/3 Studio 54 (1998)

Claudio Coccoluto ha trascorso quasi 25 anni dietro la consolle di una discoteca e da questa postazione ha osservato l’evoluzione di un fenomeno nato con La febbre del sabato sera quando l’America cerca di lasciarsi alle spalle il Vietnam, lo scandalo Watergate (in Italia sono i tempi del caso Moro) e la musica rock con tutta la sua carica politica, per lasciare il passo all’epoca della spensieratezza:  

…“fu una svolta cinematografica che creò un nuovo genere. Anche l’impatto sulla società fu incredibile. Da quel momento cominciarono a proliferare le discoteche. Su quella scia nacquero locali che hanno fatto epoca anch’essi come lo Studio 54 di NY; in ogni negozio c’era un vestito bianco come quello di Toni Manero e ogni artista, musicista, anche il più riluttante, finì per essere condizionato dalla disco e per lasciare il suo segno in quel genere. Fu un ciclone, come forse mai prima e mai dopo, che coinvolse tutto cultura, musica, costume e… anche me”.  

Il ciclone de La febbre del sabato sera tocca tutto e come il film Grazie a Dio è venerdì mostra bene, il ballo diviene una forma di evasione penetrando anche in ambienti meno marginali. La disco music unisce giovani di tutte le classi sociali, che trovano nella discoteca il luogo in cui si consuma lo svago e il dj è al centro di questo tempio del divertimento.

“Il film è il volto pulito di una realtà che nell’arco di un anno, dal ’77 al ‘78,  ha fatto ‘strada’, si è allontanata, cioè, dalla miseria sociale e culturale delle periferie newyorkesi per espandersi a più livelli, fino a toccare Hollywood. La ‘disco’ diventa un filo musicale che unisce giovani di tutte le classi sociali; le discoteche il luogo in cui si consuma questa trasversalità. Assistiamo così ad orde di ragazzi che fanno la fila fuori dai locali; adolescenti che si fingono maggiorenni per entrare nel tempio del divertimento dove ‘dominus’ incontrastato è diventato il dj. Tra le cose più interessanti da cogliere oggi, a distanza di 24 anni, c’è proprio la collocazione, l’imponenza della ‘cabina’ del disc-jokey che traducono appunto questa sua ascesa. Vedrete una sfera di cristallo, sospesa al centro della pista, sorretta da due mani. È la stessa immagine che verrà utilizzata sulla copertina del disco della colonna sonora, vero punto di forza della pellicola. È la musica che sale in cattedra, dispone, detta il ritmo e il copione. Non a caso Grazie a Dio è venerdì è stato voluto e prodotto dalla Motown e dalla Casablanca due tra le più prestigiose etichette discografiche di black music, che al palcoscenico del film regalano i camei di due dei loro artisti di punta: i Commodores e Donna Summer”.

Per passare alla trasformazione dei locali in luoghi di trasgressione ed eccessi come in Studio 54, fino agli anni ’80 di The Last Days of Disco, quando il ballo perde la sua centralità e nelle discoteche, all’animazione del sabato sera, si sostituisce la voglia di mostrarsi ed esibire il proprio ruolo sociale: i tempi sono cambiati, è finita l’epoca della disco e sono arrivati gli yuppies.  

“La discoteca è un microcosmo che non si limita a riprodurre il mondo esterno ma, molto spesso, ne tira fuori il lato nascosto. La penombra che la caratterizza, il ritmo che la avvolge e, purtroppo, anche le sostanze che vi circolano sono un detonatore per certe inquietudini e frustrazioni. Ecco in Studio 54, c’è tutto questo: splendore e miseria di un’epoca. Il film nasce come tributo al locale più famoso nella storia della Disco. Un locale newyorkese, nato all’indomani del successo de’ La Febbre del Sabato Sera. L’obiettivo del suo proprietario era regalare ‘la festa più grande del mondo’,  un tempo sospeso in cui tutto era possibile. L’esasperazione come credo, la trasgressione come regola, il sesso come esibizione. Il filo conduttore non è più la musica, ma l’eccesso.  Si tratta di un film di grande attualità perché mostra il passaggio definitivo, senza ritorno, al locale inteso come ‘club’Non è più il ballo ad emancipare, ma il vip… Avere accesso ad un luogo frequentato da quelli che contano, significa essere ‘uno che conta’. Una sorta di paradigma, di proprietà transitiva, sociale dell’apparire, che questo film traduce bene, ancora meglio di The Last Days of Disco. La sceneggiatura insiste molto su quella spietata selezione fatta all’ingresso dei locali dai ‘buttadentro’, quando non addirittura dallo stesso proprietario”.

“Studio 54, poi, racconta benissimo anche il mondo parallelo del cosiddetto privé, la parte più esclusiva della discoteca, quella dove solo pochi eletti entrano. Nell’immaginario collettivo è un punto d’arrivo, il luogo che racchiude l’elite, la ‘crème’ della vita notturna, ma di solito, almeno nel passato, era collocato nella parte più brutta del locale, come nei seminterrati”.

“The Last Days of Disco, è la ‘celebrazione’ della fine di un’epoca.”

 “Il ballo perde la sua centralità. I locali diventano luoghi d’incontro dove alla voglia di riscatto, che aveva animato i sabati sera de’ La Febbre, si sostituisce, piuttosto, un bisogno di mostrarsi, di esibire il ruolo sociale conquistato, come in una vetrina. In questo film, la discoteca, quindi, esce dalla sua marginalità sociale. A frequentarla, ormai, sono coloro che passeranno alla storia come gli yuppies, i giovani professionisti della ‘city’, quelli che spesso ostentano un benessere che non hanno e sono i protagonisti di un mondo economico-finaziario in cui i ‘mestieri’ son difficili anche solo da definire”…  

“È l’apparire dunque, che comincia a prendere quota. Ragazzi che raggiungono a piedi o con i mezzi pubblici la zona della discoteca e che salgono su un taxi a qualche isolato dal locale per fare il loro arrivo da star. Fuori dai locali, i ragazzi si assiepano nell’attesa e nella speranza di poter avere accesso al tempio di quelli che ‘contano’. Perché l’ingresso in discoteca non è più garantito. Non basta pagare per entrare, ma devi essere gradito. Rispetto ai precedenti film, in The Last Days of Disco, si prende coscienza di figure che hanno avuto in quegli anni un enorme, forse sproporzionato, potere, i cosiddetti ‘buttafuori’, e i componenti dello staff in genere. Erano loro che decretavano il destino di un sabato sera”.  

“La trasformazione, raccontata dal film, è sottolineata, poi, anche da quella del look e della stessa musica. Nell’abbigliamento ai colori sgargianti si sostituisce il nero, alle camicie di poliestere colorate, quelle bianche di cotone. Mentre le giacche sono indossate sui jeans, in un finto casual che segnerà quegli anni. Contemporaneamente cambia la geografia musicale. La solarità del funky, del soul, di matrice americana cede il passo ai suoni decisamente più ‘cupi’ del pop inglese. La colonna sonora di The Last Days of Disco, raccoglie molte tra le cose più belle prodotte nei primi anni ’80: Chic, Sister Sledge, Diana Ross…  Un momento musicalmente straordinario, che sta per essere archiviato sotto la pressione dell’elettronica. Un accenno di questo passaggio lo abbiamo verso la fine del film, quando ascoltiamo, tra l’altro per la seconda volta, un brano che raccoglie questa trasformazione: La dolce vita di Ryan Paris. Si tratta di un artista e di una produzione tutta italiana che ebbe un grande successo nel mondo”.

  I film – Sinossi

Il ciclo comincia con La febbre del sabato sera, memorabile film del 1977 diretto da John Badham, con John Travolta il fascinoso italo-americano Tony Manero e Karen Lynn Gorney. Il film racconta la voglia di riscatto sociale dei figli degli immigrati ma, grazie alla colona sonora è diventato un’icona della disco-music. Consegnate alla storia del cinema le sequenze dei balli e le musiche originali dei Bee Gees. Grazie a Dio è venerdì, film del 1978 diretto da Robert Klane con Jeff Goldblum e Debra Winger. Ogni venerdì sera nella discoteca The Zoo di Hollywood si intrecciano storie, incontri e tanta ricerca di svago. Concentrata sul versante black della disco music, la commedia fa da passerella ai grandi nomi delle etichette Motown e Casablanca, co-produttrici del film, come Donna Summer e The Commodores. The Last Days of Disco, del 1998 diretto da Whit Stillman con Kate Beckinsale e Chloë Sevigny due giovani consulenti editoriali che con fatica riescono ad aver accesso al più esclusivo club di Manhattan.

Infine Studio 54, del 1998 di Mark Christopher, con Ryan Phillippe, Salma Hayek e Myke Myers. Sogno per molti ma una realtà per pochi, uno spaccato sul leggendario locale con tutti i suoi vip e clientela selezionatissima, ma anche sesso e droga.