C’è chi nella musica cerca risposte e chi, invece, sceglie di restare nelle domande. Danilo Ruggeroappartiene a questa seconda specie: quella che non teme le crepe, che anzi le osserva da vicino per capire cosa rivelano. Con Puzzle, il suo nuovo lavoro, il cantautore si muove tra frammenti e vuoti, senza la fretta di ricomporli, lasciando che siano proprio le imperfezioni a raccontare. Lo abbiamo raggiunto e in questa chiacchierata che ci ha concesso il cantautore apre uno spiraglio sul suo modo di scrivere, di vivere e di attraversare ciò che manca — senza mai addomesticarlo.

 

Danilo, “Puzzle” sembra un lavoro fatto di fratture più che di soluzioni. Quanto è stato terapeutico, o al contrario faticoso, rimanere dentro a quei pezzi rotti?

È stato entrambe le cose. Terapeutico perché mi ha costretto a restare, a guardare, a non scappare da quelle crepe che di solito si cerca di chiudere in fretta, quando non si sta bene. Restare nel dolore significa fare analisi, sotto un certo punto di vista. Sei costretto a farla. Però è stato anche faticoso, ovviamente. A volte scrivere è come aprire una finestra su qualcosa che avresti preferito non vedere però poi lì scopri che c’è qualcosa di vivo, che si muove, che pulsa. Puzzle non è nato per guarire. È nato per fermarsi nel punto esatto in cui si sente dolore, senza volerlo sistemare ed è stato tanto terapeutico quanto doloroso. Un po’ come fare davvero terapia, in fondo.

Il titolo del singolo e dell’EP richiama l’idea di incompletezza. È un invito a fare pace con ciò che manca?

Sì, è proprio questo: non c’è una ricomposizione finale in “Puzzle”, non c’è un disegno chiaro da ricostruire. C’è solo un insieme di frammenti, ognuno col suo peso e la sua storia. Alcuni non combaciano più, alcuni mancano del tutto, ma è lì che, paradossalmente, ho cominciato a riconoscermi. Con “Puzzle” non c’è una resa né tantomeno una rinuncia romantica. C’è un esercizio quotidiano, faticoso, viscerale per fare pace con ciò che manca e, prima di tutto, smettere di cercare di aggiustarsi, di rincorrere una versione ideale di sé o del proprio passato. “Puzzle” racconta esattamente di questo “non ricomporsi” e dell’imparare a vivere con quei pezzi che non si incastrano, che non torneranno al loro posto. C’è una frase di Leonard Cohen che mi ha sempre colpito: “There is a crack in everything, that’s how the light gets in.”.  È la dura verità. Le crepe non vanno coperte, vanno guardate, attraversate. A volte ci definiscono più di qualsiasi superficie liscia. In questo EP ho provato a non nascondere nulla, né i vuoti né gli errori né i pezzi mancanti perché è proprio nella loro essenza che credo si formi il mio modo di essere ed esserci.

Nei tuoi testi c’è sempre una tensione tra il raccontare e il trattenere. È una scelta consapevole o qualcosa che ti ritrovi addosso mentre scrivi?

Non è una strategia, è una necessità. È come se scrivere fosse anche un modo per avvicinarsi al non detto. Ogni canzone è un equilibrio fragile tra il raccontare troppo e il non riuscire a raccontare abbastanza e io mi muovo lì in mezzo, inciampando spesso. La verità poi è che io non decido in anticipo cosa raccontare e cosa lasciare fuori. Mi capita spesso di accorgermi, solo dopo aver scritto, che c’è una soglia invisibile dentro ogni canzone. Da un lato quello che riesco a dire, dall’altro quello che rimane nel non detto, ma non è censura e non è paura. È il modo in cui funziono ed è come se alcune cose potessero essere solo suggerite, lasciate in sospensione, perché raccontarle fino in fondo significherebbe togliergli potere. C’è un verso, ad esempio, che ho sempre cantato solo dal vivo in Sapone e che poi ho lasciato fuori dalla versione in studio: “Io scrivo per appuntare quello che non voglio più ricordare” – ecco per me questo verso dice tutto. Spiega a cosa serve scrivere e che c’è un paradosso nella mia scrittura e nel modo in cui me ne servo: provare a fissare qualcosa per non dimenticarlo, ma allo stesso tempo per non doverlo più trattenere forzatamente e lasciarlo andare.

Danilo Ruggero Puzzle

Danilo Ruggero Puzzle


La produzione è passata per più mani ma non ha perso identità. Come avete lavorato con Dadàmo, Zoppi, Dipace e Laruccia per mantenere coerenza senza sacrificare l’istinto?

La coerenza non è stata cercata, è arrivata da sola. Credo sia successo perché ogni fase ha rispettato lo spirito iniziale dei brani senza volerli addomesticare. Anche perché io sono stato abbastanza rigido su questo. Dadàmo è stato il primo ascoltatore, quello che ha saputo vedere il potenziale grezzo di Puzzle e dargli una struttura armonica più adeguata e che mi ha suggerito più vesti da poter donare agli altri brani dell’EP.
Dipace e Laruccia hanno fatto il lavoro sporco, quello più grosso di destrutturazione e ricomposizione raccogliendo i pezzi e mettendoli in dialogo tra loro, come se ogni brano fosse un attore diverso dello stesso film ma senza che loro avessero idea che sarebbero tutti finiti nello stesso disco. Nessuno ha provato a semplificare, anzi credo sia stato proprio questo il filo rosso: la complessità lasciata intatta della struttura dei brani e della loro matrice compositiva, che ovviamente, da sempre, asseconda i testi, che sono la parte su cui io resto più intransigente. Zoppi invece mi ha aiutato a trovare una quadra quando tutto sembrava confuso e soprattutto sul brano Puzzle – nella sua versione originale – ha ritrovato il centro dopo che ognuno di noi se n’era completamente distanziato. Ecco forse le problematiche di perdita d’identità le abbiamo avute solo alla fine della produzione del brano Puzzle. Ma è stato un attimo, dovuto forse al fatto che ci abbiamo lavorato per tanto, forse troppo tempo.
Ogni produttore comunque ha portato la propria visione, ma nessuno ha cercato di rendere questi brani più accomodanti. Hanno saputo entrarci dentro con rispetto, aggiungendo prospettive senza snaturare. Forse la coerenza, a pensarci bene, non era il punto di partenza, ma è diventata la conseguenza naturale dell’ascolto profondo e della fiducia reciproca.

“Puzzle” non è un disco di risposte. Ma se potessi lasciare una domanda aperta a chi ti ascolta, quale sarebbe?
Forse questa: “Se è tutto a pezzetti, cosa scegli di fare con quello che resta?”
Io ci scrivo canzoni.