Dopo una carriera in cui hanno raccontato storie di tutti i tipi, tra passato e presente, facendo riscoprire tra le altre cose la tragedia del popolo armeno e raccontando cosa vuol dire essere in un carcere di massima sicurezza, i fratelli Taviani hanno deciso di rivolgersi ad uno dei capolavori massimi della letteratura italiana e anche mondiale, Il Decamerone di Giovanni Boccaccio, un libro che anche gli studenti più svogliati ricordano con simpatia per l’ironia e le situazioni mai volgari ma abbastanza spinte sessualmente.
Il Decamerone aveva già ispirato Pasolini a suo tempo oltre che Monicelli che l’aveva attualizzato in Boccaccio 70 cinquant’anni fa: qui i fratelli Taviani scelgono un’ambientazione in linea con quella storica e letteraria, in una Toscana splendida e neanche tanto da ritoccare con il computer, dove la peste non riesce a distruggere bellezza, colori, paesaggi, viuzze, palazzi, chiese.  D’altro canto il Medio Evo messo in scena nel film è a tratti un po’ fuori dal tempo, composito con tanti elementi di momenti diversi e non coevi al 1348 (come una riproduzione dello splendido arazzo della Dama e l’Unicorno, neanche toscano tra l’altro) e con una colonna sonora di repertorio con musiche per lo più ottocentesche, in cui spicca l’uso del tema struggente di Manon Lescaut di Puccini nell’episodio su Federigo degli Alberighi.
Cinque le novelle scelte, abbastanza significative e rappresentative di un’opera in cui i toni variano tra il tragico e il comico, e spazio anche alla cornice narrativa dei dieci ragazzi che decidono di reagire alla peste che ha portato morte e soprattutto distruzione di una convivenza civile ritirandosi in campagna a novellare, voluta dai registi come metafora e monito ai giovani di oggi, oggi preda di pesti come le ideologie totalitarie, ma anche la disoccupazione che porta a non voler più lottare migliorandosi e studiando.
Alla fine, la cosa più debole è il cast: certo, ci sono interpreti ottimi, come il padre incestuoso Lello Arena o la madre superiora Paola Cortellesi, che rimprovera e punisce la sottoposta trovata con l’amante finché quest’ultima non le fa notare che ha come velo le mutande del suo di amante con cui si stava sollazzando, in una delle scene più irresistibili del film, che ben riflette lo spirito goliardico di Boccaccio che ha colpito tante generazioni di adolescenti. Ma altri personaggi sono semplicemente volti di bellocci e bellocce presi in prestito da soap e tv commerciale, ma se questo serve ad avvicinare un po’ di pubblico non già preparato ai classici, alla fine ben venga.

Elena Romanello