Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (HSC) è ancora oggi il trattamento d’elezione per diverse condizioni nel campo dell’onco-ematologia, dell’immunologia e per alcune malattie ereditarie, a 60anni dal primo intervento.

Questa tipologia di trapianto nasce per trattare i danni al midollo con lo scopo di ristabilire la produzione delle cellule del sangue in pazienti in cui il midollo osseo è danneggiato o difettoso. Inizialmente venivano trattate solo persone molto giovani e con cellule staminali derivate solo da donatori totalmente compatibili. Ancora oggi però, nonostante siano milioni i volontari iscritti ai registri internazionali, la probabilità di trovare un donatore compatibile è solo del 40%. Cosa succede al restante 60% dei pazienti?

I trapianti possono essere suddivisi in due macrocategorie; trapianto autologo nel caso in cui vengano utilizzate le cellule dello stesso paziente compatibili quindi al 100%, o trapianto allogenico da un donatore. Nel secondo caso è fondamentale che ci sia un’elevata compatibilità, il successo del trapianto dipende ampiamente dalla compatibilità e quando non è sufficiente c’è il rischio di sviluppo della graft versus host disease (GVHD), cioè quella condizione in cui le cellule del donatore attaccano i tessuti del ricevente non riconoscendoli come “propri”.

Grazie allo sviluppo delle tecnologie, è diventata concreta anche la possibilità di eseguire trapianti allogenici aploidentici, cioè che utilizzano donatori familiari compatibili solo al 50% con il paziente. In questo caso il donatore e il ricevente condividono infatti solo un “aplotipo” (che significa “metà”). Ovviamente le cellule staminali ematopoietiche del donatore devono essere sottoposte ad una specifica procedura per essere accettate dal ricevente, limitando così la probabilità di sviluppo della GVHD e di rigetto.

L’utilizzo di cellule staminali da cordone ombelicale in trapianti aploidentici presentano numerosi vantaggi secondo un recente studio*.  “L’utilizzo di cellule staminali da cordone ombelicale – spiega il Prof. Luca Pierelli del Dipartimento di Medicina Sperimentale Sapienza Roma, – oltre ad essere immediatamente disponibili in caso di conservazione alla nascita, sono immature da un punto di vista immunologico e possono quindi riprodursi in qualsiasi tipologia di cellula, inoltre è ridotto al minimo se non assente il rischio di sviluppare la GVHD quindi il rigetto, infine i linfociti infusi hanno una capacità maggiore di riconoscere ed eliminare le cellule tumorali rimaste nel paziente nonostante la terapia.  I dati dello studio parlano chiaro, in caso di trapianto aploidentico con cellule staminali cordonali, il tasso di sopravvivenza a 3 anni dall’infusione è dell’80.5% quindi un effetto a lungo termine oltre alla minor incidenza di recidiva”.

“Conservare le cellule staminali del cordone ombelicale alla nascita è una forma di prevenzione per tutta la famiglia. – commenta Luana Piroli, Direttore generale e della raccolta di In Scientia Fides – Un vero e proprio patrimonio biologico immediatamente disponibile in caso di necessità, che rappresenta un salva vita in parecchi casi, oltre ad essere una terapia approvato dal Ministero della Salute per oltre 70 patologie”.