Ad ogni ricorrenza, anniversario, ricordo spesso si afferma che “sembra ieri”, seppur il tempo trascorso dall’ evento lieto o triste sia cospicuo.
Sono vent’anni oggi, da quel mercoledì pomeriggio allorchè discussi la mia tesi di laurea nella sala delle audizioni dell’Università Statale di Milano.
19 marzo 1997.
19 marzo giorno in cui si celebra la festa del papà.
Ricorrenza ormai di natura commerciale ed edonistica, che contrasta con il sentimento affettivo che lega padri e figli.
Che strana la vita, per come molti avvenimenti si verifichino in certe date, in un momento particolare, in una data precisa.
Pare che le coincidenze vengano decise da una sorta di accordo tra varie entità trascendenti come Cronos, la Nemesi, e chi sa quante altre. 
Conseguo la laurea nel giorno della festa del papà.
Mio papà che fu il più assiduo sostenitore del mio percorso accademico.
Nella mia mente risuona la frase che “era solito ricordarmi nei momenti di difficoltà, mio padre, Studia che avrai un avvenire assicurato, avrai il “pane in vita”.
Mio padre che serbava il “culto del lavoro” e dello studio (come tutti coloro che vissero il dramma della guerra e le difficoltà degli anni post bellici che possedevano l’ambizione e il sogno di vedere i loro figli laurearsi, di fregiarsi del titolo di “dottore” quasi fosse un totem idolatrato) e che per il suo “credo” e il suo integerrimo senso del dovere perse le dita di una mano a 23 anni, in un mondo del lavoro dove diritti e sicurezze era traguardi ancora da conquistare. Quella menomazione divenne con gli anni quasi una medaglia al valor civile per l’attaccamento dimostrato al lavoro.
Una “vita fa” mi viene da dire ponendo mente a quanto è accaduto e cambiato.
Una vita, appunto se solo penso alle speranze, ai sogni, ai progetti che si stagliavano davanti ai miei occhi in quel pomeriggio assolato più estivo che primaverile con la temperatura che superava abbondantemente i 25 gradi, mentre percorrevo le strade adiacenti il tribunale di Milano, dopo la proclamazione dell’avvenuto conseguimento della laurea.
Tutto evaporato, tutto dissolto.
E’ rimasto solo il “famoso pezzo di carta” prodotto da un “esamificio” (appellativo in voga in quegli anni per descrivere quale fosse l’organizzazione di certi atenei).
La reminescenza degli avvenimenti della mia esistenza da quella data, da quel “traguardo”  scorrono più velocemente nella mia mente rispetto alla velocità con la quale, venti anni dopo, sto percorrendo in sella alla mia bicicletta le strade ondulate delle Prealpi.
I progetti mai raggiunti in ambito lavorativo che quel “pezzo di carta” avrebbe dovuto garantire, come voleva la vulgata di un quarto di secolo fa.
No, non voglio crearmi il solito alibi e svicolare dalle mie personali responsabilità puntando il dito accusatore verso la società, la politica, la Dea bendata, ecc. se quel “papiro istoriato con inchiostro di china” non mi ha permesso di costruirmi un’ esistenza certa, sicura, serena, con un’occupazione lavorativa redditizia. No, perchè pur con la rivoluzione economica-sociale che ha stravolto il nostro Pianeta, ognuno è l’artefice del proprio destino e due “insegnamenti” mi si attagliano bene: la commedia di Eduardo De Filippo “gli esami non finiscono mai” e l’ adagio popolare: meglio la pratica della grammatica.
E allora penso che, evidentemente, quei sogni, quelle speranze, quei progetti, e il perenne stato di disoccupazione sia maggiormente frutto della mia incapacità, delle scelte sbagliate che feci, della mia assoluta contrarietà ai compromessi, al discostarmi dalla linea di condotta che ho sempre seguito, al voler sempre seguire quei valori a cui mi sono sempre ispirato, come l’ onestà, il senso civico, il credere nella Giustizia, nello Stato, a voler rispettare sempre e comunque le leggi.
Sarei tacciato da Stendhal come “una persona da poco”, visto che era solito affermare che “l’onestà è la virtù della gente da poco”.
Ideali vacui per molti.
Così come la cultura, che vale meno della furbizia, della spregiudicatezza, delle raccomandazioni, dei “santi in paradiso”, del sapersi imporre, del fine che giustifica i mezzi.
Del resto viviamo in un ambito in cui la contraddittorietà più profonda la fa da padrona.
Si moltiplicano i corsi di laurea senza alcuna sicurezza di sbocchi lavorativi fornendo al “famoso pezzo di carta” meno valore e utilità della carta bianca, morbida, avvolta attorno ad un rotolo di cartone che si utilizza nei locali adibiti all’espletamento dei bisogni fisiologici; eppure da recenti dati Eurostat, il nostro Paese ha una carenza di laureati, solo il 23,9%, lontano dalla media europea che si attesta al 37,8%.
La precarietà e la disoccupazione non riguarda solamente l’ambito dei laureati ma è una piaga che coinvolge milioni di cittadini con diversità di titoli di studio o di esperienza. 
E sì, perchè se si è giovani e senza alcuna esperienza in ambito occupazionale, le risposte di diniego alla richiesta di un lavoro sono sempre le solite: ricerchiamo personale con esperienza nella mansione; probabilmente non sanno che tutti gli individui non nascono “imparati”.
Al contrario se coloro che cercano lavoro hanno superato gli “anta” le parole che odono saranno diametralmente opposte: cerchiamo giovani da formare…
Un mondo, una società, dove la globalizzazione e l’automazione non sono più al servizio del lavoratore e la causa della eliminazione dei diritti, della creazione della precarietà, della distruzione sempre maggiore di posti di lavoro, con l’inevitabile diminuzione della fiscalità generale, visto che “le macchine e gli automi” non versano i contributi e non pagano le tasse sul reddito (un problema mondiale di cui persino B.Gates, il magnate dell’informatica, ne ha compreso il pericolo, proponendo di applicare ai robot la stessa tassazione prevista per i lavoratori in “carne e ossa”).  
Questo mio consuntivo esistenziale mi sta riempiendo di sconforto, forse agevolato dal cielo corrucciato da alti cirri biancastri che velano un pallido sole. 
Uno sconforto che lo scenario delle lande prealpine lombarde ed elvetiche dissolvono presto quel retrogusto amaro che impregna le mie fauci e il mio sistema gastro-enterico.
Svanisce, sostituito dal pensiero che pur non avendo alcun futuro certo, con all’orizzonte molti cumulo-nembi minacciosi, rifletto che una dote comune a tutti gli esseri viventi e senzienti non l’ho mai perduta, svenduta, o barattata: la Dignità.
E’ una magra consolazione ?
Non credo, perchè è la linfa vitale che ci permette di continuare a vivere a “testa alta” senza dover abbassare lo sguardo e osservare le calzature che si indossano, magari di alta moda, costose, luccicanti, simbolo del lusso.
E il lusso è solo una questione di denaro, l’eleganza è un modo di essere, la dignità è innata e difficile da conservare.
Auguro e consiglio ad ogni persona in difficoltà o schifata della vita di tenersi stretto quel valore più prezioso che lo renderà sempre un uomo/donna di “gran classe”.
 
Massimo Puricelli
Castellanza(VA)