[dropcap]R[/dropcap]epliche, repliche delle repliche, fondi di magazzino, pellicole in bianco e nero ormai ingiallite per la vetustà del nastro, questo è quanto ci offre la programmazione televisiva durante il mese di agosto “santificato” alle ferie per antonomasia.
Però, come nel deserto, dove si possono scorgere oasi verdeggianti in cui trovare ristoro salutare e salvifico, ecco che martedì sera su Rai Uno viene riproposta la fiction che narra l’ epopea sportiva (e quella esistenziale) di Pietro Mennea, campione olimpico a Mosca 1980 dei 200 metri piani di atletica leggera e primatista mondiale e detentore del record della specialità per oltre 17 anni.
Un cadeau, lo sceneggiato di Ricky Tognazzi.
Una perla quella narrazione biografica del campione pugliese simbolo eminente dell’ atletica italiana, protagonista per oltre due decenni dello sport tricolore, ma anche, e soprattutto, emblema di un ‘esistenza votata al sacrificio, alla volontà nel raggiungimento di numerosi traguardi prefissati.
Seguendo le due ore di fiction, che riassumono oltre 20 anni della carriera agonistica di Mennea, esplode dentro me una serie di innumerevoli e piacevoli ricordi della mia infanzia, allorchè il velocista pugliese era una vera icona e un mito da emulare per noi bambini che ci identificavamo nelle sue gesta, nelle sue vittorie, nel suo “modo di correre” caratterizzato da una enorme forza di volontà e da ore e ore di intenso lavoro.
Un ragazzo “mingherlino” Pietro Mennea;  basta osservare i filmati e le fotografie delle sue gare.
Un fisico più da mezzofondista che da sprinter.
Nulla a che vedere con i colossi di oggi (vedasi Bolt), “palestrati” e più simili a body-builders che sembrano gonfiati come la fauna avicola da allevamento intensivo. 
Eppure Pietro Mennea detenne il record mondiale dei 200 metri per oltre 17 anni; ha vinto un oro olimpico, e un bronzo, oltre ad essere stato campione europeo più volte.
Era il prototipo dell’ atleta del secolo scorso”; tanto cervello, tanta volontà, tanto lavoro e pochi muscoli (gonfiati). 
Lo sceneggiato televisivo incentra la trama attorno la sua caratteristica peculiare: la capacità di andare oltre i suoi limiti, di sopperire a quelle doti che Madre Natura non gli aveva donato; la strenua volontà di dare sempre il meglio di se stesso e raggiungere traguardi impensabili, impossibili, inarrivabili a detta di molti.
Non aveva una potenza devastante per via del suo fisico minuto, e allora ecco sfoderare dalla sua forza mentale e nervosa, quel quid che gli permetteva di superare e battere gli avversari più forti, più aitanti, più dotati muscolarmente.  
Non possedeva un’ uscita dai blocchi di partenza bruciante, ma sfoderava un rush finale da leggenda (rimarranno nella storia dell’atletica gli ultimi 40 metri della finale olimpica dei 200 metri a Mosca quando superò negli ultimi centimetri il velocista britannico Wells)  
Una dote innata, il suo “brain power”, ma anche frutto di intensi allenamenti, di enormi sacrifici, di una meravigliosa forza di volontà.
Una caratteristica che lo contraddistinse anche fuori dalla pista di tartan rossa, visto che conseguì 4 lauree, svolse una distinta carriera legale ed economica oltre ad essere stato anche impegnato politicamente, aver scritto diversi saggi, e aver fatto parte dello staff dirigenziale della Salernitana calcio.
Insieme alla moglie diede vita alla fondazione filantropica che porta il suo nome dedita alla diffusione della cultura sportiva e alla lotta al doping.
Era il simbolo della rivalsa, della voglia di vincere, di quel valore che ci insegnano religioni e filosofie: nella vita di ciascuno l’importante è dare sempre il meglio di noi stessi qualunque sia la “missione” da compiere.
 
Massimo Puricelli
Castellanza(VA)